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Le Encicliche di Papa Pio X

«COMMUNIUM RERUM»

VIII centenario della morte di s. Anselmo d'Aosta

(1909)

L'opera e la dottrina di s. Anselmo d'Aosta: una lettura con attualizzazione nell'ottavo centenario della sua morte.

Fra le acerbità dei tempi e le recenti calamità che opprimono l'animo Nostro di dolore, Ci è di grato conforto la gara unanime, onde tutto il popolo cristiano è stato testé e continua ad essere «spettacolo al mondo e agli angeli e agli uomini» (1 Cor. 4,9). La qual gara, se dalla vista delle presenti sventure poté avere eccitamento più pronto, come da causa unica provenne dalla carità di Gesù Cristo Signore nostro. E poiché la carità degna di tale nome non è fiorita nel mondo né può fiorire se non per Cristo, da Cristo solo dobbiamo riconoscere ogni frutto ch'ella reca fra noi, anzi pure fra gli stessi uomini rilassati nella fede o nemici della religione, nei quali, se appare qualche vestigio di carità vera, è tutto merito di quella civiltà che Cristo è venuto a portare nel mondo e che essi non sono riusciti ancora a scacciare in tutto da sé e dalla società cristiana.

Di tanto pietoso concorso di tutte le anime cristiane gareggianti a conforto del padre e a sollievo dei fratelli nelle comuni e private tristezze, è commosso e riconoscente il Nostro cuore più che non si possa esprimere a parole. E sebbene già più volte l'abbiamo significato in particolare ai singoli, non vogliamo ora tardare di rendere a tutti pubblicamente le più vive azioni di grazie, a voi prima, venerabili fratelli, indi per mezzo vostro ai fedeli tutti alle vostre cure affidati.

E parimenti intendiamo protestare pubblicamente la Nostra gratitudine per tante e così luminose dimostrazioni di amore e di ossequio che Ci diedero i Nostri figli carissimi in ogni parte del mondo cattolico, in occasione del Nostro giubileo sacerdotale. Esse riuscirono gratissime al Nostro cuore non tanto per il riguardo Nostro quanto per quello della religione e della chiesa, perché furono testimonianza di fede, intrepidamente professata, quasi a riparazione sociale e ad ossequio pubblico reso a Cristo e alla sua chiesa nella persona di Colui che il Signore ha posto a governare la sua famiglia. Ma anche altri frutti, per questo rispetto, Ci confortarono grandemente. Così le feste onde tante diocesi del Nord dell'America ricordarono con religiose solennità il primo centenario della loro erezione, benedicendo il Signore, che aveva chiamato tante anime alla luce della verità nel seno della cattolica chiesa; così lo stupendo omaggio, ripristinato a Cristo presente nella divina eucaristia, da migliaia e migliaia di credenti col concorso di molti Nostri venerabili fratelli e del Nostro stesso legato, sul suolo della nobilissima isola d'Inghilterra; e così anche le consolazioni della perseguitata chiesa di Francia al mirare gli splendidi trionfi del santissimo Sacramento, particolarmente nel santuario di Lourdes, delle cui origini godemmo pure di vedere celebrato così solennemente il cinquantesimo anniversario. Per questi e altri fatti è bene appaia a tutti, e si persuadano i nemici della fede cattolica, come lo splendore delle cerimonie e il culto della augusta Madre di Dio, e gli stessi filiali omaggi resi al sommo pontefice, sono tutti rivolti in fine alla gloria di Dio e alla salute degli uomini medesimi col trionfo del regno di Dio in mezzo a loro, perché sia «Cristo in ogni cosa e in tutti» (Col. 3, 11).

Questo trionfo di Dio sulla terra, che deve avverarsi negli individui e nella società, sta appunto in quel ritorno degli uomini a Dio mediante Cristo, e a Cristo mediante la chiesa, che Noi abbiamo annunziato come il programma del Nostro pontificato nel rivolgervi la prima volta la parola con la lettera enciclica E supremi Apostolatus Cathedra, e di poi altre volte ripetutamente. A questo ritorno fiduciosi Noi miriamo e ad affrettarlo indirizziamo i Nostri propositi e desideri, come ad un porto in cui si quietino anche le tempeste della vita presente. Né per altro motivo, appunto, Ci sono grati gli omaggi resi alla chiesa nella Nostra umile persona. se non perché, con l'aiuto di Dio, sono indizio di tale ritorno delle nazioni a Cristo e di più intensa e pubblica adesione a Pietro e alla chiesa.

La quale intensità di adesione non è certo d'ogni età e d'ogni condizione d'uomini nel grado stesso o nelle stesse manifestazioni esteriori. Ma certo si può ben dire ch'essa, per una disposizione provvidenziale, diviene tanto maggiore, quanto più avversi corrono i tempi, sia contro la sana dottrina o contro la disciplina sacra o contro la libertà della chiesa. E di siffatta unione ci diedero esempio in altri secoli i santi all'infuriare delle persecuzioni contro il gregge di Cristo o all'imperversare dei vizi nel mondo, mentre a questi mali Iddio venne opponendo, conforme al bisogno, la loro virtù e sapienza. Fra tali santi uno soprattutto vogliamo ora ricordare, del cui glorioso transito ricorre quest'anno l'ottavo centenario, s. Anselmo d'Aosta, dottore della chiesa, della dottrina e dei diritti della chiesa acerrimo difensore, prima quale monaco e abate in Francia, indi quale arcivescovo di Canterbury e primate in Inghilterra. Né certo sarà inopportuno, dopo le feste giubilari celebrate con insolito splendore a onore di due altri santi dottori della chiesa, Gregorio Magno e Giovanni Crisostomo, splendore l'uno della chiesa occidentale e l'altro della orientale, fermarci pure a contemplare quest'altra stella che, se «differisce in chiarezza» (1 Cor. 15, 41) dalle due precedenti, emulandole tuttavia nelle sue ascensioni, vibra intorno luce di dottrina e di esempi non meno efficace. Che anzi la potrebbe dire taluno sotto qualche rispetto più efficace, in quanto Anselmo maggiormente si accosta a noi di tempo, di schiatta, d'indole, di studi, e più somigliano ai tempi nostri sia il genere di lotte superate, sia la forma di azione pastorale da lui attuata, sia il metodo d'insegnamento applicato e largamente promosso per sé, per i suoi discepoli, e per i suoi scritti, tutti composti «a difesa della religione cristiana, a profitto delle anime e a norma di tutti i teologi, che poi insegnarono le sacre lettere col metodo della scuola». Onde, come nell'oscurità della notte, mentre altre stelle tramontano, altre ne sorgono a rischiarare il mondo, così ad illustrare la chiesa succedono ai padri i figli. Fra essi rifulse, come astro chiarissimo, sant'Anselmo.

E certamente fra le tenebre di errori e di vizi dell'età in cui visse, apparve Anselmo ai migliori suoi contemporanei quale un faro di santità e di sapere. Fu egli infatti come «un principale sostegno della fede, uno splendore della chiesa, ... una gloria dell'episcopato, un uomo che tutti aveva superato i migliori personaggi del suo tempo». — «Sapiente buono, splendido oratore, chiaro ingegno», venne in tal fama, da meritare che si scrivesse di lui, «nessuno al mondo aver potuto dire: Anselmo è a me inferiore, e mi somiglia»: onde riuscì egli accetto a re, a prìncipi, a sommi pontefici, nonché ai suoi religiosi fratelli e al popolo fedele, anzi «avuto caro dagli stessi suoi nemici». A lui, ancora abate, scrisse il grande e fortissimo pontefice Gregorio VII lettere piene di stima e di affetto, «raccomandando sé e la chiesa cattolica alle orazioni di lui» (Breviarium Romanum, die 21 aprilis). A lui scrisse Urbano II, riconoscendone «la prerogativa di religione e di scienza» (In libro II Epist. S. Anselmi, ep. 32). A lui e di lui molte volte Pasquale II con particolare cordialità, esaltandone «la riverenza della devozione, la vigorìa della fede, la insistenza della sollecitudine pia», riconoscendone l'autorità «della religione e della sapienza» (In libro III Epist. S. Anselmi, ep. 74 et 42), che lo persuadeva ad annuire alle richieste della fraternità sua chiamandolo ben anche sapientissimo e religiosissimo fra tutti i vescovi d'Inghilterra.

Eppure agli occhi propri Anselmo non apparirà mai altro che omicciuolo spregevole, omiciattolo ignoto, uomo di troppo poca scienza, di vita peccatore. Né però tanta modestia di animo e umiltà sincerissima sminuiva punto l'altezza dei suoi pensieri e la grandezza del cuore, come sogliono giudicare gli uomini depravati di vita e di giudizio, dei quali dice la Scrittura, che «l'uomo animale non capisce le cose dello spirito di Dio» (1 Cor 2,14). E, cosa ancora più mirabile, la magnanimità e la costanza invitta, benché provata da tante persecuzioni, contraddizioni, esilio, andò unita in lui ad una tale mitezza e amabilità che sopiva gli sdegni dei suoi stessi avversari e gliene conciliava infine gli animi esacerbati. Sicché quei medesimi, «a cui la sua causa era molesta», lodavano lui, «perché era buono» (Epicedion in obitum Anselmi).

Così in lui si accordavano mirabilmente le parti che il mondo stima falsamente inconciliabili e contraddittorie: semplicità e grandezza, umiltà e magnanimità, forza e soavità, scienza infine e pietà, onde, come negli inizi così in tutto il corso della sua vita religiosa, «era stimato da tutti in singolar modo, quale modello di santità e di dottrina» (In libro III Epist. S. Anselmi, ep. 44 et 74).

Né questo doppio merito di Anselmo si restrinse fra le pareti domestiche o nel giro della scuola, ma di qui, come da militare palestra, uscì a mostrarsi in campo aperto. Poiché, avendo Anselmo incontrato tempi così difficili, come accennavamo, ebbe a sostenere lotte fortissime a favore della giustizia e della verità. Egli, di animo tutto propenso alla contemplazione e agli studi, dovette immergersi nelle più svariate e gravi occupazioni, anche in quelle del governo della chiesa, ed essere così travolto nelle più torbide vicende dell'età sua agitata. D'indole dolce e mitissima, per amore della sana dottrina e della santità della chiesa, dovette rinunziare alla vita di pace, alle amicizie dei potenti, ai favori dei grandi, al concorde affetto, che prima godeva, dei suoi stessi fratelli di vita religiosa e di episcopato; vivere in contrasti diuturni, in angustie di ogni fatta. Così, trovata egli l'Inghilterra piena di odi e di pericoli, dovette resistere vigorosamente contro re e prìncipi usurpatori e tiranni della chiesa e dei popoli, contro ministri fiacchi o indegni dell'ufficio sacro, contro l'ignoranza e i vizi dei grandi e delle plebi, sempre acerrimo vindice della fede e della morale, della disciplina e della libertà, della santità quindi e della dottrina della chiesa di Dio; ben degno perciò di quest'altro encomio del già citato Pasquale: «Sieno grazie a Dio, perché in te perdura sempre l'autorità del vescovo, e sebbene posto fra barbari non cessi dall'annunziare la verità né per violenza di tiranni. né per favore di potenti, né per accensione di fuoco, né per oppressione di mano». E altra volta: «Esultiamo, perché, dandoti aiuto la grazia di Dio, né le minacce ti scuotono, né le promesse ti smuovono».

Per queste cose tutte è ben giusto che anche Noi, venerabili fratelli, ad otto secoli d'intervallo, esultiamo, come il Nostro predecessore Pasquale, e, facendo eco alla sua voce, rendiamo grazie a Dio. Ma insieme Ci è caro di confortar voi pure a fissare lo sguardo a questo luminare di dottrina e di santità, che, sorto in Italia, rifulse per più di un trentennio alla Francia, per più di quindici anni all'Inghilterra; e infine alla chiesa tutta, quale comune presidio e decoro.

Che se grande fu Anselmo «nelle opere e nelle parole», se cioè, nella scienza e nella vita, nella contemplazione e nell'azione, nella pace e nella lotta procurò splendidi trionfi alla chiesa e vantaggi insigni alla civile società, tutto si ha da riconoscere dalla sua intima adesione a Cristo e alla chiesa in tutto il corso della sua vita e del suo magistero.

Ricordando queste cose, venerabili fratelli, con particolare attenzione nella solenne ricordanza di un tanto dottore, ne ritrarremo preclari esempi e da ammirare e da imitare. Anzi da tale considerazione attingeremo altresì un vivo incoraggiamento e conforto nelle cure affannose del governo della chiesa e della salute delle anime, per non venir mai meno al nostro debito di cooperare con ogni sforzo, perché siano restaurate tutte le cose in Cristo, perché «sia formato Cristo» (Gal 4,19) nelle anime tutte, massimamente in quelle che sono la speranza del sacerdozio, per sostenere costantemente la dottrina della chiesa, per difendere infine strenuamente la libertà della sposa di Cristo, la santità dei suoi diritti divini, la pienezza insomma di quei presìdi che la tutela del sacro primato richiede.

Infatti, voi vedete, venerabili fratelli, e ne avete spesso gemuto con Noi, quanto siano tristi i tempi in cui siamo caduti, quanto gravose le condizioni in cui dobbiamo trovarci. Anche fra gli infortuni pubblici che ne recarono estremo affanno, Ci siamo sentiti inacerbire il dolore da avventate calunnie contro il clero, quasi che si fosse mostrato indolente al soccorso nella calamità; dagli ostacoli frapposti perché non apparisse la benefica azione della chiesa a pro di figli desolati; dal disprezzo della sua stessa cura e provvidenza materna. Non parliamo poi di altre opere tristi, a danno della chiesa o macchinate con subdola astuzia o consumate con empio ardimento, calpestando ogni diritto pubblico, ogni Legge anzi di equità e di onestà naturale. Il che massimamente fu enorme eccesso di malvagità in quei paesi che ebbero già dalla chiesa maggiore luce di civiltà. Perché qual cosa più brutale che vedere tra quei figli, cui la chiesa crebbe e accarezzò quasi suoi primogeniti, suo fiore e suo nerbo, vederne alcuni drizzare furiosi le armi contro il seno della madre che li ha tanto amati? — E non c'è molto da consolarci per lo stato di altri paesi: la guerra medesima, benché in varia forma, o infuria o minaccia per via di tenebrose macchinazioni. Si vuole insomma universalmente, nelle nazioni che più debbono alla cristiana civiltà, spogliare la chiesa dei suoi diritti, si vuole trattarla come non fosse affatto, di natura e di diritto, società perfetta, quale fu istituita da Cristo medesimo, riparatore della nostra natura; si vuole annientato il suo regno che, sebbene primariamente e direttamente riguardi le anime, non giova però meno alla loro salvezza eterna che alla sicurezza della civile prosperità; si vuole con ogni sforzo che in luogo del regno di Dio spadroneggi, sotto mentito nome di libertà, la licenza. E pur di far trionfare con l'impero delle passioni e dei vizi la peggiore di tutte le schiavitù, trascinando a precipizio nell'estrema rovina i popoli — perché «il peccato segna il declino dei popoli» (Pro 14,34) — non si cessa di gridare: «Non vogliamo che egli regni sopra di noi» (Le 19,14). Quindi cacciati da paesi cattolici gli ordini religiosi, che furono alla chiesa in ogni tempo di ornamento e difesa, e promotori delle opere più benefiche di scienza e di civiltà fra le nazioni barbare e le civili; quindi indeboliti o ristretti al possibile i suoi benèfici istituti, sprezzati e derisi i suoi ministri, anzi ridotti, ove sia dato, all'impotenza, all'inerzia; chiuse loro o rese estremamente difficili le vie della scienza e del magistero, massime nell'allontanarli gradatamente dall'istruzione ed educazione della gioventù; messe in difficoltà tutte le opere cattoliche di pubblica utilità; scherniti, perseguitati o depressi anche i laici egregi, di professione apertamente cattolica, quasi classe inferiore o reietta, finché venga il giorno, che si vuole affrettato con leggi sempre più inique e con abietti provvedimenti, di deferirli come nemici dello stato e metterli al bando anche dalle ultime manifestazioni sociali. E si vantano gli autori di questa guerra, tanto subdola insieme e spietata, di muoverla per amore di libertà, di civiltà, di progresso; e, a crederli, pure per carità di patria: simili anche in questa menzogna al loro padre, «il quale fu omicida fin da principio, e quando parla con bugia, parla da par suo, perché egli è bugiardo» (Gv 8, 44), e ardente di odio insaziabile contro Dio e contro il genere umano. Uomini di fronte proterva costoro, che cercano di dar parole e tendere insidie agli ingenui. Non dolce amore di patria, o ansiosa cura del popolo, non altro nobile intento o desiderio di cosa buona che sia, muove costoro alla guerra accanita; ma odio cieco contro Dio e contro quella società divina che è la chiesa. Da questo odio prorompe l'insano proposito di veder la chiesa fiaccata ed esclusa dalla vita sociale; da questo odio l'ignobile sfogo di gridarla morta e tramontata, mentre non si cessa di muoverle guerra; anzi pure l'audacia e la insensatezza di rinfacciarle, dopo spogliatala d'ogni libertà, che per nulla più conferisca al benessere della società, alla felicità della patria. Dallo stesso odio viene pure l'astuto dissimulare o il tacere affatto le più aperte benemerenze della chiesa e della sede apostolica, se pure non si rivolgono le nostre beneficenze in argomento di sospetti, d'insinuazioni, di suggestioni, che s'infiltrano con arte astuta negli orecchi e negli animi della moltitudine, spiando e travisando ogni atto e detto della chiesa, quasi fosse un pericolo imminente alla società; invece di riconoscere, com'è indubitato, che i progressi della genuina libertà e della civiltà più sincera sono da Cristo principalmente, per opera della chiesa.

Di questa guerra che freme al di fuori, mossa da nemici esterni, «per la quale o con esercito schierato e con aperte battaglie, o con arte subdola e coperte insidie, dappertutto scorgiamo la chiesa pigliata d'assalto», abbiamo più volte premunito la vostra vigilanza, venerabili fratelli, e ancora nella Nostra allocuzione pronunziata in Concistoro il 16 dicembre 1907.

Ma con non minore severità e dolore abbiamo dovuto denunziare e reprimere un altro genere di guerra, intestina bensì e domestica, ma quanto meno palese ai più, tanto maggiormente pericolosa. Mossa da figli snaturati, che si annidano nel seno stesso della chiesa per lacerarlo silenziosamente; questa guerra mira più direttamente alla radice, all'anima della chiesa: mira ad intorbidare le sorgenti tutte della pietà e della vita cristiana, ad avvelenare le fonti della dottrina, a disperderne il deposito sacro della fede, a sconvolgere i fondamenti della costituzione divina: volta in dileggio ogni autorità così dei romani pontefici come dei vescovi a dare nuova forma alla chiesa, nuove leggi, nuovi diritti, secondo i placiti di mostruosi sistemi; insomma tutta deformare la bellezza della sposa di Cristo, per il vano bagliore di una nuova cultura, che è scienza di falso nome, da cui l'apostolo ci mette in guardia ripetutamente: «Badate che nessuno vi raggiri per mezzo di una filosofia vuota e ingannatrice, secondo la tradizione degli uomini, secondo i principi del mondo e non secondo Cristo» (Col 2, 8).

Da questa falsa filosofia e da questa mostra di vuota e fallace erudizione, congiunta ad una somma audacia di critica, sedotti alcuni «svanirono nei loro pensieri» (Rm 1, 21), e, «rigettata la buona coscienza, fecero naufragio intorno alla fede» (1 Tm 1, 19); altri si vanno dibattendo miseramente tra i flutti del dubbio, né sanno essi medesimi a qual lido approdare; altri, sprecando tempo e studi, si perdono dietro a ciance astruse, onde poi si alienano dallo studio delle cose divine e dalle sincere fonti della dottrina. Né, sebbene denunziato già più volte e smascheratosi infine per gli eccessi medesimi dei suoi fautori, questo semenzaio di errori e di perdizione (che ebbe volgarmente dalla sua smania di malsana novità il nome di «modernismo») cessa di essere male gravissimo e profondo. Esso cova latente, come veleno, nelle viscere della società moderna, alienatasi da Dio e dalla sua chiesa, e massimamente serpeggia «come cancro» in mezzo alle giovani generazioni, naturalmente più inesperte e spensierate. Non è esso infatti una conseguenza di studi seri e di scienza vera, giacché non vi può essere dissenso vero tra la ragione e la fede; ma è effetto dell'orgoglio intellettuale e dell'aria pestifera che si respira, di ignoranza o cognizione tumultuaria delle cose di religione, mista alla stolta presunzione di parlarne e discuterne. E tale infezione malefica è poi fomentata dallo spirito dell'incredulità e della ribellione a Dio; onde chiunque è preso da questa cieca frenesia di novità pretende bastare a sé stesso, scuotere da sé palesemente o ipocritamente ogni giogo di autorità divina, foggiandosi poi a capriccio una sua religiosità vaga, naturalistica, individuale, che del cristianesimo simuli il nome e la parvenza, non ne abbia affatto la verità e la vita.

Ora in tutto ciò non è difficile ravvisare una delle tante forme della guerra eterna che si combatte contro la verità divina, e che ora si muove tanto più pericolosamente, quanto più insidiose sono le armi palliate di religiosità nuova, di sentimento religioso, di sincerità, di coscienza, onde uomini ciarlieri si affannano a cercare conciliazione tra le cose più disparate, come tra il delirare della scienza umana e la fede divina, tra l'ondeggiare frivolo del mondo e la dignitosa costanza della chiesa.

Ma se tutto ciò voi vedete e con Noi deplorate amaramente, venerabili fratelli, non per questo vi perdete d'animo o v'indebolite di speranza. Voi non ignorate quanto gravi lotte abbiano recato al popolo cristiano altri tempi, benché diversi certamente dai nostri. Basta che ritorniamo per poco col pensiero all'età in cui visse Anselmo, così piena di difficoltà, come appare dagli annali della chiesa. Vi fu allora veramente da lottare per la religione e la patria, cioè a dire per la santità del diritto pubblico, per la libertà, la civiltà, la dottrina, di cui la chiesa sola era maestra e vindice alle nazioni; vi fu da rintuzzare la violenza di prìncipi, che si arrogavano di conculcare i diritti più sacri; da sradicare i vizi, l'ignoranza, la rozzezza del popolo stesso, non ancora spogliato in tutto dell'antica barbarie e ricalcitrante bene spesso all'opera educatrice della chiesa; infine da rialzare una parte del clero, o fiacco o sregolato nella sua condotta, come pure quello che non di rado era scelto a capriccio e con perversa elezione da prìncipi, da essi dominato e ad essi ligio in ogni cosa.

Tale era lo stato delle cose segnatamente in quei paesi, a cui benefizio spese Anselmo l'opera sua in modo più speciale, sia con l'insegnamento del maestro, sia con l'esempio del religioso, sia con la vigilanza assidua e la molteplice industria dell'arcivescovo e del primate. Poiché soprattutto sperimentarono i singolari benefizi di lui le province della Gallia, che erano cadute da pochi secoli in potere dei Normanni, e le isole Britanniche, da pochi secoli venute alla chiesa. Le une e le altre, già tanto sconvolte da rivoluzioni interne e da guerre esterne, dettero occasione a rilassatezza nei regnanti e nei sudditi, nel clero e nel popolo.

Di simili abusi del loro secolo fortemente si lamentavano gli uomini insigni di quell'età, come Lanfranco, già maestro e poi predecessore di Anselmo nella sede di Canterbury; e più ancora i vescovi di Roma, fra i quali basti ricordare l'invitto Gregorio VII, campione intrepido della giustizia nella difesa della libertà della chiesa e della santità del clero. Forte del loro esempio ed emulo del loro zelo, se ne doleva pure energicamente Anselmo, così scrivendo ad un principe sovrano della sua gente, e che godeva dirsi a lui congiunto per consanguineità e affetto: «Vedete, mio carissimo signore, in qual modo la chiesa di Dio, nostra madre, che Iddio chiama sua bella amica e sposa diletta, è calpestata dai prìncipi malvagi; in qual modo è tribolata per loro dannazione eterna da quelli ai quali fu raccomandata da Dio come a protettori che la difendessero; con quale presunzione questi medesimi usurparono ai loro propri usi le cose di lei; con quale crudeltà riducono a schiavitù la libertà di lei, con quale empietà sprezzano e disperdono la legge e la religione di lei. Ma essi, sdegnando di essere ubbidienti ai decreti dell'Apostolico, fatti a difesa della religione cristiana, si convincono certo disubbidienti a Pietro apostolo, del quale egli tiene le veci, anzi a Cristo, il quale a Pietro raccomandò la sua chiesa. ... Perché quelli che non vogliono essere soggetti alla legge di Dio, senza dubbio sono riputati nemici di Dio». Così egli, e così l'avessero ascoltato sempre i successori e nipoti di quel fortissimo principe, l'avessero ascoltato altri sovrani e popoli da lui tanto amati, premuniti, beneficati.

Ma le persecuzioni medesime, l'esilio, le spogliazioni. gli stenti e le fatiche di lotte accanite, particolarmente nella sua vita episcopale, non solo non scossero mai, ma sembrarono sempre radicare in Anselmo più profondo l'amore della chiesa e dell'apostolica sede. In mezzo alle sue prove più angosciose, così egli scrisse al Nostro predecessore Pasquale: «Non temo l'esilio, non la povertà, non i tormenti, non la morte, perché, confortandomi Iddio, a tutte queste cose è preparato il mio cuore per l'obbedienza della sede apostolica e per la libertà della chiesa di Cristo madre mia». — Se egli ricorre per protezione e aiuto alla cattedra di Pietro, ciò è solo per questo: «affinché mai per mio mezzo e per mia causa resti indebolita la costanza della religiosità ecclesiastica e dell'apostolica autorità», com'egli significa scrivendo a due prelati illustri della chiesa romana. E ne assegna questa ragione, che è per Noi la tessera della fortezza e dignità pastorale: «Voglio piuttosto morire e, finché avrò vita, andare piuttosto oppresso da ogni sorta di penuria nell'esilio, anziché vedere offuscata in qualsiasi modo, per causa mia o per mio esempio, l'onoratezza della chiesa di Dio».

Questa onoratezza, libertà e purità della chiesa ha egli sempre al primo posto dei suoi pensieri; questa affretta coi sospiri, con le preghiere, i sacrifici; questa promuove quanto più possibile, sia nella resistenza vigorosa sia nella pazienza virile, e la difende con l'azione, con gli scritti e con la voce. Questa medesima raccomanda con forti e soavi parole ai monaci suoi fratelli, ai vescovi, ai chierici, a tutto il popolo fedele; ma con più severità a quei prìncipi, che più la calpestavano a immenso danno loro proprio e dei loro sudditi.

Ora tali nobili voci di sacra libertà tornano bene opportune ai nostri giorni, sulle labbra di quelli che «lo Spirito Santo ha posto a reggere la chiesa di Dio» (Act 20, 28); tornano opportune anche quando, per la fede illanguidita o la perversità degli uomini o la cecità dei pregiudizi, non avessero da trovare ascolto. A Noi è rivolta (e voi ben lo sapete, venerabili fratelli), a voi è rivolta in singolar modo la parola del Signore: «Grida, non darti riposo: alza quale tromba la tua voce» (Is 58, 1); e soprattutto nel tempo in cui anche «l'Altissimo fece udire la sua Voce» (Sal 17, 14) nello stesso fremito della natura e nelle tremende calamità: voce «del Signore che scuote la terra», voce che suona monito terribile per insegnarci la lezione dura alle nostre orecchie, che quanto non è eterno è un nulla e che «non abbiamo qui città stabile ma andiamo cercando quella futura» (Eb 13, 14); voce però non solo di giustizia, ma di misericordia e di salutare richiamo alle nazioni traviate. Fra queste pubbliche sventure noi dobbiamo gridare più alto e intimare le verità grandi della fede non solo ai popoli, agli umili, agli afflitti, ma ai potenti altresì, ai gaudenti, agli arbitri e consiglieri delle nazioni; intimare a tutti le grandi verità, che la storia conferma con le sue terribili lezioni di sangue; come questa che «il peccato fa miseri i popoli» (Pro 14, 34), - «I potenti saranno tormentati potentemente» (Sap 6, 7), onde quel monito del Salmo 2: «Or dunque, o re, fate senno; lasciatevi ammonire, o giudici della terra. Servite a Dio con timore... Abbracciate la disciplina affinché il Signore non si sdegni, e voi andiate perduti nella via». E di tali minacce sono da aspettarsi più acerbe le conseguenze, quando le colpe sociali si moltiplicano, quando il peccato dei grandi e del popolo sta anzitutto nella esclusione di Dio e nella ribellione alla chiesa di Cristo: duplice apostasia sociale, che è fonte lacrimevole di anarchia, di corruzione, di miserie senza fine per gli individui e per la società.

Che se delle colpe siffatte noi possiamo divenire partecipi col silenzio stesso e con l'indolenza, cosa purtroppo non rara anche fra i buoni, ognuno dei sacri pastori stimi detto a sé per la difesa del suo gregge, e agli altri inculchi opportunamente ciò che Anselmo scriveva al potente principe delle Fiandre: «Prego, scongiuro, ammonisco, consiglio, quale fedele dell'anima vostra, mio signore, e come in Dio veramente amato, che non crediate mai vada sminuita la dignità dell'altezza vostra, se amate e difendete la libertà della sposa di Dio e madre vostra, la chiesa; né pensiate di umiliarvi se l'esaltate, né crediate d'indebolirvi se la fortificate. Vedete, guardate intorno; gli esempi sono alla mano: considerate i prìncipi che la impugnano e la conculcano, a che cosa profittano, a che punto giungono? È chiaro abbastanza: non occorre dirlo». E questo spiega anche più chiaramente con la sua solita forza e soavità insieme, al forte Baldovino, re di Gerusalemme: «Siccome amico fedelissimo vi prego, vi ammonisco, vi scongiuro, e prego Iddio, che vivendo sotto la legge di Dio, sottomettiate per tutte le cose la volontà vostra alla volontà di Dio. Perché allora voi regnate in verità per vostro bene, se regnate secondo la volontà di Dio. Né datevi a credere, come fanno molti cattivi re, che a voi la chiesa di Dio sia stata data come a signore perché vi serva, ma raccomandata come ad avvocato e a difensore. Nulla ama Iddio maggiormente in questo mondo, che la libertà della sua chiesa. Quelli che vogliono a lei non tanto giovare quanto dominare, senza dubbio mostrano di contrariare Dio. Iddio vuole che la sua sposa sia libera non già schiava. Quelli che la trattano e la onorano come figli, mostrano di essere veramente figliuoli di lei e figliuoli di Dio. Quelli invece che la padroneggiano quasi soggetta, si rendono a lei non figli ma stranieri e perciò giustamente vanno esclusi dalla eredità e dalla dote a lei promessa». — Così egli sfogava l'animo suo pieno di amore per la chiesa; così mostrava il suo ardore per la difesa della libertà, tanto necessaria nel governo della famiglia cristiana e cara a Dio, come affermava lo stesso egregio dottore in quella concisa ed energica sentenza: «Nulla ama Iddio maggiormente in questo mondo, che la libertà della sua chiesa». Né possiamo Noi, venerabili fratelli, aprirvi meglio l'animo Nostro che ripetendo queste belle parole.

E parimenti opportuni ci cadono altri avvertimenti dello stesso santo inculcati ai potenti. Così, ad esempio, scriveva alla regina d'Inghilterra Matilde: «Se volete rettamente, bene ed efficacemente rendere grazie col fatto stesso a Dio, prendete in considerazione quella regina che a lui piacque scegliersi sposa da questo mondo... Questa, dico, considerate, questa esaltate, onorate, difendete, perché possiate con questa e in questa sposa piacere a Dio, e con lei vivere regnando nella beatitudine eterna». E massimamente quando v'incontriate in qualche figlio che gonfio della potenza terrena vive immemore della madre, o a lei avversario e ribelle, allora è da ricordare che: «A voi appartiene il suggerire di frequente, opportunamente e importunamente, questi e altri siffatti avvertimenti, e suggerire che egli mostri di essere non padrone ma avvocato, non figliastro ma figliuolo della chiesa». A noi pure, a noi soprattutto, conviene inculcare quell'altro detto di Anselmo, così nobile e paterno: «Quando sento qualche cosa di voi che non piace a Dio e a voi non è conveniente, se tralascio di ammonirvi, non temo Iddio e non amo voi come debbo». — E specialmente quando ci venisse all'orecchio «che trattate le chiese, che sono in vostro potere, diversamente da quello che conviene ad esse e all'anima vostra», allora dovremmo imitando Anselmo, di nuovo pregare e consigliare e ammonire «che ripensiate a queste cose con diligenza e se la vostra coscienza vi attesterà essere in esse qualche cosa da correggere, vi affrettiate a correggerla». — «Poiché nulla è da trascurare di ciò che si può correggere, mentre Iddio chiede conto a tutti non solo del male che fanno, ma anche del non correggere i mali che possono correggere. E quanto hanno più potere da correggere, tanto più rigorosamente Iddio esige da essi, che secondo la potestà loro comunicata misericordiosamente, vogliano e facciano bene... Che se voi non potete fare tutte le cose al tempo stesso, non dovete per questo smettere lo sforzo di profittare dal meglio al meglio, perché Iddio vuole benignamente condurre a perfezione i buoni propositi e i buoni sforzi e con beata pienezza retribuirli».

Questi e altri simili moniti, sapientissimi e santissimi, che Anselmo dava anche ai signori e ai re della terra, bene possono ripeterli pastori e prìncipi della chiesa, come naturali difensori della verità, della giustizia, della religione nel mondo. Certo gli ostacoli sono venuti accumulandosi ai nostri tempi enormemente, sì che appena resta luogo dove muoverci senza impaccio e senza pericolo. Perché, mentre il vizio e l'empietà si lasciano spadroneggiare per ogni dove con sfrenata licenza, con fiera ostinazione si mettono i ceppi alla chiesa, e ritenuto a scherno il nome di libertà, con sempre nuove arti si moltiplicano impedimenti all'opera nostra e a quella del nostro clero: sicché nessuna meraviglia se «non potete fare tutte le cose insieme» a correzione dei traviati, a soppressione degli abusi, a promozione delle rette idee e del retto vivere, a sollievo infine dei mali che aggravano la chiesa.

Ma confortiamoci: vive Iddio e farà che «tutte le cose si volgano in bene per quelli che amano Dio» (Rm 8, 28): anche da questi mali egli trarrà il suo bene, e sui tanti ostacoli, opposti dalla umana perversità, farà rifulgere più splendido il trionfo dell'opera sua e della sua chiesa. È questo il consiglio mirabile della sapienza divina: queste «le imperscrutabili sue vie» (Rm 11, 33) nel presente ordine di Provvidenza — «poiché i pensieri miei non sono i pensieri vostri; né le vie vostre, le vie mie, dice il Signore» (Is 55, 8), — che la chiesa di Cristo rinnovi sempre più in sé la vita del suo Istitutore divino, il quale tanto patì, e in certo modo «dia compimento a ciò che rimane dei patimenti di Cristo» (Col 1, 24). Quindi la sua condizione di militante in terra è quella appunto di vivere in mezzo alle difficoltà, alle lotte, alle molestie continue, e così «entrare nel regno di Dio per via di molte tribolazioni» (At 14, 21), ricongiungendosi con quella già trionfante nei cieli.

Il che ci spiega pure assai opportunamente Anselmo nella sua omelia sopra le parole di Matteo: «Gesù obbligò i suoi discepoli a montare nella barca. Secondo la intelligenza mistica viene descritto sommariamente lo stato della chiesa dalla venuta del Salvatore sino alla fine del mondo.... La nave dunque era sbattuta dai flutti in mezzo al mare, mentre Gesù dimorava sulla vetta del monte; perché da quando il Salvatore ascese al cielo, la santa chiesa è stata agitata da grandi tribolazioni in questo mondo, sbattuta da svariate tempeste di persecuzioni e vessata da perversità diverse di uomini malvagi e tentata da vizi in molti modi. Perché le era contrario il vento, mentre il soffio degli spiriti maligni l'avversa continuamente, affinché non giunga al porto della salute; tenta di travolgerla sotto i flutti delle avversità del secolo, movendole tutte le contrarietà che può».

Errano dunque gravemente coloro che si perdono di fede nella tempesta, perché vorrebbero per sé e per la chiesa uno stato permanente di piena tranquillità, di prosperità universale, di riconoscimento pratico e unanime del sacro suo potere senza contrasti. E molto peggio e turpemente errano quelli che s'illudono di guadagnarsi questa pace effimera col dissimulare i diritti e gli interessi della chiesa, col sacrificarli ad interessi privati, con l'attenuarli ingiustamente, col conformarsi al mondo, «che tutto sta sottoposto al maligno» (1 Gv 5, 19), sotto specie di riconciliarsi i fautori della novità e ravvicinarli alla chiesa; quasi fosse possibile una composizione o accordo tra la luce e le tenebre, fra Cristo e Belial. È questa un'allucinazione vecchia quanto il mondo, ma è moderna sempre e durevole nel mondo, finché vi resteranno soldati deboli o traditori che al primo colpo gettano le armi o scendono a patteggiare col nemico, che qui è il nemico irreconciliabile di Dio e degli uomini.

A voi spetta, dunque, venerabili fratelli, che la divina provvidenza ha costituito pastori e guide del popolo cristiano, a voi spetta il resistere fortissimamente contro questa funestissima tendenza della moderna società di addormentarsi in una vergognosa inerzia, tra l'imperversare della guerra contro la religione, cercando una vile neutralità, fatta di deboli ripieghi e di compromessi, tutto a danno del giusto e dell'onesto, immemore del detto chiaro di Cristo: «Chi non è con me, è contro di me» (Mt 12, 30). Non già che i ministri di Cristo non debbano abbondare in carità paterna, poiché ad essi massimamente si riferiscono le parole dell'apostolo: «Mi sono fatto tutto a tutti per tutti far salvi» (1 Cor 9, 22); non già che non convenga cedere anche talora dello stesso proprio diritto, per quanto è lecito ed è richiesto dal bene delle anime. Di tale mancanza certo non cade il sospetto in voi, che siete spronati dalla carità di Cristo. Ma è questo un equo condiscendere, che si fa senza detrimento anche minimo del dovere, né tocca affatto i princìpi immutabili ed eterni della verità e della giustizia.

Così leggiamo che avvenne nella causa di Anselmo, o piuttosto nella causa di Dio e della chiesa, per cui Anselmo ebbe a sostenere così lunghe e così aspre lotte. Sicché, composto alfine il lungo dissidio, scriveva a lui il Nostro predecessore Pasquale II: «Noi crediamo che si sia ottenuto appunto in grazia della tua carità e per l'insistenza delle tue orazioni, che la misericordia divina in questa parte volgesse lo sguardo a quel popolo, al quale presiede la tua sollecitudine». — E quanto alla pietosa condiscendenza, usata dal pontefice verso i colpevoli, soggiungeva: «Quanto poi all'aver tanto accondisceso, sappi che si è fatto per tale affetto e compassione, che noi possiamo rialzare quelli che erano a terra. Poiché se chi sta in piedi porge la mano al caduto per rialzarlo, non lo rialzerà mai, se non si pieghi egli pure alquanto. Del resto, quantunque il piegarsi paia un avvicinarsi alla caduta, non perde tuttavia l'equilibrio della rettitudine».

Ma nel far Nostre queste parole del Nostro piissimo predecessore, dette a consolazione di Anselmo, non vogliamo dissimulare il sentimento vivissimo del pericolo, che apprendono anche gli ottimi fra i pastori della chiesa, di andare oltre il giusto o nella condiscendenza o nella resistenza. E di tale apprensione sono argomento altresì le ansie, le trepidazioni, le lagrime di uomini santissimi, i quali maggiormente sentivano la terribile gravità del governo delle anime e la grandezza del pericolo. Ma ne è argomento soprattutto la vita di Anselmo, il quale, strappato alla solitudine della vita claustrale e degli studi, per essere sollevato a dignità altissima in tempi difficilissimi, si trovò in preda alle più tormentose sollecitudini e angosce, fra cui nulla più temeva che di non fare abbastanza per la salute dell'anima sua e del suo popolo, per l'onore di Dio e della sua chiesa. Né fra tali ansietà sbattuto e di più vivamente addolorato per l'abbandono colpevole di molti anche fra i confratelli vescovi, trovava egli altro maggiore conforto che nella fiducia in Dio e nel ricorso alla sede apostolica. Quindi «posto nel naufragio ..., allo scatenarsi delle tempeste», si rifugiava «nel seno della madre chiesa», invocando dal vescovo di Roma «pietoso e pronto aiuto e conforto». E perciò forse permise Iddio in un tanto uomo, pieno pure di sapienza e di santità, sofferenze così angosciose, perché fosse a noi di conforto insieme e di esempio fra le maggiori difficoltà e le angustie del ministero pastorale, cosicché si avveri in ciascuno di noi il sentimento di Paolo: «Volentieri mi glorierò nelle mie infermità, affinché abiti in me la potenza di Cristo. Per il che mi compiaccio nelle mie infermità ... poiché quando sono debole, allora sono potente» (2 Cor 12, 9.10). Né alieni da questi sono i sentimenti che Anselmo esprimeva ad Urbano II: «Santo Padre, sono addolorato di essere quello che sono; addolorato di non essere quello che fui: sono addolorato di essere vescovo, perché, in causa dei miei peccati, non compio l'ufficio di vescovo. In umile stato mi pareva di fare qualche cosa; posto in luogo sublime, aggravato da peso stragrande, non faccio frutto per me e non sono utile ad alcuno. Io soccombo al peso, perché più di quanto sembri credibile, soffro penuria di forze, di virtù, d'industria, di scienza, convenevoli a tanto officio. Bramo di fuggire la cura insopportabile, di lasciare il peso: temo al contrario di offendere Dio. Il timore di Dio mi indusse ad accettare, il timore stesso mi induce a ritenere lo stesso peso... Ora, poiché la volontà di Dio mi è occulta, e io non so che fare, vado errando fra sospiri e non so come mettere fine a questo affare».

Così suole Iddio far sentire anche agli uomini santi la debolezza nativa per meglio manifestare in essi la forza della virtù divina, e, col sentimento umile e verace della insufficienza individuale, mantenere più salda l'adesione concorde all'autorità della chiesa. E ciò si vede appunto in Anselmo e in altri vescovi suoi contemporanei, che combatterono a difesa della libertà e dottrina della chiesa sotto la guida della sede apostolica. Essi riportarono per frutto della loro obbedienza la vittoria nella lotta, confermando col loro esempio la sentenza divina, che «l'uomo obbediente canterà vittoria» (Pro 21, 28). E la speranza di tale premio risplende a quelli soprattutto che obbediscono a Cristo nel suo vicario in quelle cose tutte che si riferiscono o al reggimento delle anime o al governo della chiesa o che vi sono in qualche modo congiunte: «giacché dall'autorità della sede apostolica dipendono le direzioni e i consigli dei figli della chiesa».

In questo genere di virtù quanto si sia segnalato Anselmo, con quale ardore e fedeltà abbia conservato sempre unione perfetta con la sede apostolica, si può anche argomentare da ciò che si legge scritto da lui allo stesso pontefice Pasquale: «Con quanto studio la mia mente secondo il suo potere, si stringa nella riverenza e nell'ubbidienza alla sede apostolica, lo attestano le molte e gravissime tribolazioni del mio cuore, note a Dio solo e a me... Da tale intenzione spero in Dio non esservi cosa che valga a ritrarmi. Perciò, in quanto mi è possibile, voglio rimettere tutti gli atti miei alla disposizione dell'autorità stessa, perché li diriga e, ove sia bisogno, li corregga».

E la medesima fermezza di volontà ci mostrano le azioni, gli scritti, le lettere particolarmente di lui che il nostro predecessore Pasquale disse «scritte con la penna della carità». Ma nelle sue lettere al pontefice egli non implora solo pietoso «aiuto e conforto» (libro III Epist. S. Anselmi, ep. 37), ma promette preghiera assidua con parole tenerissime di affetto filiale e di fede inconcussa, come quando, ancora abate di Bec scriveva a Urbano II: «Per la tribolazione vostra e della chiesa romana, che è tribolazione nostra e di tutti i veri fedeli, non smettiamo di pregare Dio assiduamente, perché mitighi a voi i giorni cattivi, finché sia scavata al peccatore la fossa. E noi siamo certi, ancorché sembri a noi ritardare, che Dio non lascerà lo scettro dei peccatori sopra l'eredità dei giusti; che non abbandonerà la sua eredità, e che le porte dell'inferno non prevarranno contro di lei» (libro II Epist. S. Anselmi, ep. 33).

Ora Noi da queste e simili altre lettere di Anselmo prendiamo mirabile conforto non solo per la rinnovata memoria del santo così devoto a questa sede apostolica, ma altresì per la rinfrescata ricordanza delle lettere vostre e delle altre vostre innumerevoli testimonianze di devozione, venerabili fratelli, in simili lotte e in simili dolori.

Certo è cosa mirabile che l'unione dei vescovi e dei fedeli col vescovo di Roma si è venuta stringendo sempre più intimamente fra l'infuriare delle tempeste, scatenatesi lungo i secoli contro la cristianità, e ai nostri tempi si è fatta così unanime e cordiale che appare sempre più cosa divina. Essa è appunto la nostra maggiore consolazione, com'è gloria e presidio validissimo della chiesa. Ma quanto più eccellente è il beneficio, tanto più ci è invidiato dal demonio e tanto più odiato dal mondo, il quale non conosce nulla di simile nelle società terrene, né può spiegarselo con le sue ragioni politiche e umane, essendo l'adempimento della sublime preghiera stessa di Cristo, fatta nell'ultima cena.

È necessario pertanto, venerabili fratelli, di sforzarci con ogni studio a custodire e a rendere sempre più intima e cordiale questa unione divina tra il capo e le membra, non mirando a considerazioni umane sì bene a ragioni divine, affinché tutti siamo una cosa sola in Cristo. Con rinvigorire questo nobile sforzo noi adempiremo sempre meglio la nostra sublime missione, che è di essere continuatori e propagatori dell'opera di Cristo e del suo regno in terra. E perciò appunto la chiesa va ripetendo nei secoli la preghiera amorosa dello Sposo celeste, che è pure il sospiro del Nostro cuore più acceso: «Padre santo, custodisci nel tuo nome quelli che mi hai dati affinché siano una cosa sola come noi» (Gv 17, 11).

Ma è necessario questo sforzo, non solo per opporci agli assalti esterni di quelli che combattono allo scoperto contro la libertà e i diritti della chiesa; è necessario anche per ovviare ai pericoli interni, che ci vengono appunto dal secondo genere di guerra che abbiamo deplorato sopra, quando ricordammo quella classe di traviati, che si sforzano con subdoli sistemi di sconvolgere dalle fondamenta la costituzione ed essenza stessa della chiesa, di macchiarne la purità della dottrina e rovesciarne la disciplina tutta. Anche in questi giorni continua a serpeggiare il veleno stesso, che già si è infiltrato in molti pure del clero, giovani massimamente, come abbiamo detto, infetti dall'atmosfera ammorbata per la sfrenata smania di novità che li travolge nell'abisso e li affoga.

Di più per una deplorabile aberrazione i progressi stessi per sé buoni, nelle scienze positive e nella prosperità materiale, dànno occasione e pretesto d'insolentire con una intollerabile superbia contro le verità divine a molti deboli ingegni disposti dalla passione all'errore. Costoro dovrebbero invece ricordare le molteplici disdette e contraddizioni frequenti dei fautori d'incaute novità nelle questioni di ordine speculativo e pratico più vitali per l'uomo; e riconoscere come questa appunto è la punizione dell'orgoglio umano, di non essere mai coerente a se stesso e di naufragare miseramente prima di scorgere il porto della verità. Ma essi, neppure della propria esperienza hanno saputo profittare, per umiliarsi e distruggere «le macchinazioni e ogni alterezza che si levi contro la scienza di Dio, e riducendo in soggezione ogni intelletto a ossequio di Cristo» (2 Cor 10, 4.5).

Anzi passando costoro dall'uno estremo all'altro, dal presumere al disperare, seguendo quel metodo di filosofia, che, dubitando di ogni cosa, tutto avvolge nelle tenebre; onde la professione dell'«agnosticismo» contemporaneo con altre siffatte dottrine assurde, secondo un'infinità di sistemi discordanti fra loro e con la retta ragione: sicché «svanirono nei loro pensieri ... poiché, dicendo di essere sapienti, diventarono stolti» (Rm 1, 21.22).

Le loro grandiose parole tuttavia, le loro gonfie proposte di nuova sapienza quasi caduta dal cielo, di sistemi moderni, scossero molti giovani, come già quelle dei manichei, Agostino, e li travolsero, più o meno inconsapevoli, lungi dalla retta strada. Ma di tali funesti maestri di sapienza insana e dei loro tentativi, delle loro illusioni, dei loro sistemi erronei e perniciosi abbiamo detto assai distesamente nella Nostra lettera enciclica dell'8 settembre 1907, Pascendi dominici gregis.

Ora Ci giova notare che, se i pericoli ricordati sono più gravi e più imminenti ai nostri giorni, non sono però totalmente diversi da quelli che minacciavano la dottrina della chiesa ai tempi di Anselmo. E così pure è da considerare come nell'opera sua di dottore, noi possiamo trovare quasi un pari aiuto e conforto per la tutela della verità, come per la difesa della libertà e dei diritti lo troviamo nella sua fortezza apostolica.

Senza rammemorare qui partitamente tutte le condizioni intellettuali del clero e del popolo in quell'età lontana, era pericoloso singolarmente un doppio eccesso a cui trascorrevano gl'ingegni. Alcuni più leggeri e vanitosi, nutriti di una superficiale erudizione, si gonfiavano oltre ogni credere, nella loro indigesta cultura. Quindi sedotti per una larva di filosofia e di dialettica vuota e fallace, che passava sotto nome di scienza, «sprezzavano le autorità sacre, con nefanda temerità osavano disputare contro l'uno o l'altro dei dogmi che la fede cristiana professa ... e con insipiente orgoglio giudicavano piuttosto non essere possibile quanto non potevano intendere, anziché confessare con umile sapienza potervi essere molte cose che essi non valevano a comprendere. ... Sogliono infatti certuni, appena hanno incominciato quasi a mettere fuori le corna di una scienza presuntuosa di sé — non sapendo che se alcuno stima di sapere qualche cosa, non ha conosciuto ancora in qual modo egli lo debba sapere, — prima che abbiano messe le ali spirituali mediante la sodezza della fede, levarsi con presunzione alle questioni più alte della fede. Onde avviene che, mentre ... sregolatamente si sforzano di ascendere innanzi tempo per via dell'intelligenza, per difetto dell'intelligenza stessa siano portati a discendere in multiformi errori». E di simili abbiamo gli esempi tristissimi e numerosi sotto gli occhi ancor oggi!

Altri al contrario, timidi o neghittosi, spaventati per giunta dal naufragio di molti nella fede e dal pericolo della scienza che «gonfia», andavano fino ad escludere ogni uso di filosofia, se non anche ogni studio di ragionata discussione nelle dottrine sacre.

Fra i due eccessi sta di mezzo la usanza cattolica, la quale, come detesta la presunzione dei primi (rimproverata da Gregorio IX nell'età susseguente), i quali, «gonfi come otri dallo spirito di vanità, ... si sforzano più del dovuto di stabilire la fede con ragione naturale, adulterando la parola di Dio con fantasie di filosofi», così riprova la negligenza dei secondi, troppo alieni dagli studi razionali, e noncuranti «di far profitto per via della fede nell'intelligenza» (libro II Epist. S. Anselmi, ep. 41), massime quando loro spetti per debito di officio il difendere la fede cattolica contro gli errori insorgenti da ogni parte.

A siffatta difesa ben si può dire che sia stato da Dio suscitato Anselmo per additare con l'esempio, con la voce, con gli scritti la via sicura, a comune vantaggio schiudere le fonti della sapienza cristiana ed essere guida e norma di quei maestri cattolici che dopo di lui «insegnarono le sacre lettere col metodo della scuola» (Breviarium Romanum, die 21 aprilis). Sicché egli non a torto fu stimato e celebrato come il loro precursore.

Né con ciò vuole intendersi che il dottore di Aosta abbia raggiunto di primo tratto il colmo della speculazione teologica o filosofica, ovvero anche la fama dei due sommi maestri Tommaso e Bonaventura. I frutti posteriori della sapienza di questi ultimi non maturarono se non col tempo e mediante il concorso delle fatiche di molti dottori. Anselmo stesso, modestissimo, com'è proprio dei veri sapienti, del pari che dotto e perspicace, ebbe mai a pubblicare alcuno dei suoi scritti se non per occasione data, o per impulso altrui, e in essi protesta che «se qualche cosa vi sia da correggere, egli non ricusa la correzione», anzi, quando la questione è controversa né connessa alla fede, non vuole che il discepolo «aderisca per tal modo alle cose che ha detto da ritenerle pertinacemente, anche quando altri con più validi argomenti sapesse distruggere queste e stabilire opinioni diverse; il che se avvenisse, basterà che non neghi aver giovato le cose dette a esercizio di discussione».

Ma pure Anselmo ottenne più che non sperasse egli o che altri presumesse: ottenne tanto che la gloria dei susseguenti dottori e dello stesso Tommaso d'Aquino non oscurò la gloria del predecessore, anche quando l'Aquinate non ne abbia accettate le conclusioni tutte, o veramente vi abbia aggiunto compimento e precisione. Anselmo ebbe il merito di aprire il sentiero della speculazione, di allontanare i sospetti dei timidi, i pericoli degli incauti, i danni dei rissosi e sofisti, o dialettici ereticali, del suo tempo, come li denomina egli giustamente, nei quali la ragione era schiava dell'immaginazione e della vanità.

Contro questi ultimi egli osserva che, «mentre tutti sono da avvertire che si accostino con cautela grandissima alle questioni della Scrittura sacra, questi dialettici del tempo nostro sono da rimuovere del tutto dalla discussione di questioni spirituali». E la ragione che ne assegna è più che mai opportuna a quelli che li imitano ora sotto i nostri occhi, ricantandone gli errori: «Nelle loro anime, infatti, la ragione che deve essere principe e giudice di quante cose sono nell'uomo, si trova così involta nelle immaginazioni corporali, che da queste non può districarsi, né vale a sceverare da esse le cose che ella sola e pura deve contemplare». Né meno opportunamente ai nostri tempi egli deride codesti falsi filosofi, «i quali, perché non possono capire ciò che credono, disputano contro la verità della fede stessa, confermata dai santi padri, come se pipistrelli e civette, che non vedono il cielo se non di notte, disputassero dei raggi del sole nel suo meriggio, contro aquile che fissano il sole senza battere ciglio». Quindi pure egli condanna qui e altrove la perversa opinione di coloro che troppo concedendo alla filosofia, le attribuivano il diritto d'invadere il campo della teologia. A tale stoltezza opponendosi egli, accenna bene i confini propri dell'una e dell'altra e insinua abbastanza quale sia l'officio della ragione nelle cose della fede: «La nostra fede», egli dice, «si ha da difendere per via di ragione contro gli empi». — Ma in qual modo e fino a qual segno? Ci è chiarito dalle parole che seguono: «Si deve mostrare ad essi ragionevolmente quanto essi ci disprezzino irragionevolmente» (libro II Epist. S. Anselmi, ep. 41). Precipuo officio della filosofia è quello pertanto di dimostrare la ragionevolezza della nostra fede e il dovere, che ne consegue, di credere all'autorità divina che ci propone misteri altissimi, i quali, per la testimonianza dei tanti segni di credibilità, sono oltremodo degni di fede. Assai diverso è l'officio proprio della teologia cristiana, la quale si fonda sopra il fatto della rivelazione divina e rende più solidi nella fede quelli che già professano di godere dell'onore del nome cristiano. Onde è ben chiaro che «nessun cristiano deve disputare come non sia ciò che la chiesa cattolica crede col cuore e confessa con la bocca; ma tenendo sempre indubitatamente la stessa fede, amando e vivendo secondo essa, deve cercare, per quanto può, la ragione come sia. Se può capire, renda grazie a Dio; se non può, non impunti le corna a cozzare, ma abbassi il capo a venerare» (S. ANSELMUS, De fide Trinitatis, cap. 2).

Quando dunque i teologi cercano e i fedeli chiedono ragioni intorno alla nostra fede, non è per fondare in esse la loro fede, che ha per fondamento l'autorità di Dio rivelante; ma tuttavia, secondo il parlare di Anselmo, «come il retto ordine esige che noi crediamo le profondità della fede cristiana prima che presumiamo di discuterle con la ragione, così pare a me negligenza se dopo che siamo confermati nella fede, non ci studiamo d'intendere ciò che crediamo». E intende qui Anselmo di quella intelligenza della quale parla il concilio Vaticano I. Poiché, com'egli dimostra altrove, «benché dopo gli apostoli molti nostri santi padri e dottori dicano tante e così grandi cose della ragione di nostra fede, ... non poterono tuttavia dire tutte le cose che avrebbero potuto, se fossero vissuti più a lungo; e la ragione della verità è così ampia e così profonda che dai mortali non si può esaurire; il Signore non cessa d'impartire i doni della sua grazia nella sua chiesa, con la quale promette di essere fino alla consumazione del secolo. E per tacere di altri passi nei quali la Scrittura sacra ci invita a investigare la ragione, in quello ove dice che se non crederete, non capirete, ci ammonisce apertamente di estendere l'intento all'intelligenza, mentre ci insegna come dobbiamo ad essa avanzarci». Neppure va trascurata l'ultima ragione che egli soggiunge: «Tra la fede e la visione c'è di mezzo l'intelligenza, che possiamo avere in questa vita, e quanto più alcuno in essa profitta, tanto più si accosta alla visione, alla quale tutti aneliamo» (S. ANSELMUS, De fide Trinitatis, Praefatio).

Con questi e somiglianti princìpi — tra l'altro — Anselmo gettò i fondamenti del sano indirizzo negli studi filosofici e teologici, indirizzo che poi altri sapientissimi personaggi, principi della scolastica, fra cui soprattutto il dottore di Aquino, seguirono, accrebbero, illustrarono e perfezionarono a grande onore e difesa della chiesa. E su questo merito di Anselmo abbiamo insistito volentieri, venerabili fratelli, per averne una nuova e desiderata occasione di inculcarvi che procuriate di ricondurre la gioventù, del clero segnatamente, alle fonti saluberrime della sapienza cristiana, schiuse fra i primi dal dottore di Aosta e arricchite in gran copia dall'Aquinate. Al qual proposito non si dimentichino le istruzioni del Nostro predecessore Leone XIII (Encyclica Aeterni Patris, 4 aug. 1879: EE 3/49 ss) di felice memoria e le Nostre stesse, ripetute molte volte e anche nella già ricordata enciclica Pascendi dominici gregis dell'8 settembre 1907. Troppo apertamente si va confermando ogni giorno più, per la triste esperienza, il danno e la rovina dell'aver trascurato siffatti studi o preso a farli senza metodo fermo e sicuro, mentre prima di essere idonei e preparati, molti «presunsero discutere le più alte questioni della fede». Il che deplorando con Anselmo, ne ripetiamo insieme le forti raccomandazioni: «Nessuno s'immerga temerariamente nelle intricate questioni delle cose divine, se prima non ha acquistato, la sodezza della fede, gravità di costumi e di senno, acciocché discorrendo con incauta leggerezza per i rigiri molteplici dei sofismi, non finisca nel laccio di qualche tenace falsità». E questa «incauta leggerezza», ove sia scaldata, come spesso avviene, al fuoco delle passioni, è la rovina totale dei seri studi e della integrità della dottrina. Poiché, gonfi di quella superbia insipiente, lamentata da Anselmo nei dialettici ereticali del suo tempo, essi disprezzano le sacre autorità delle sante Scritture e padri e dottori, dei quali direbbe invece un ingegno più modesto le parole rispettose di Anselmo: «Né ai nostri tempi né ai futuri speriamo altri pari a quelli nella contemplazione della verità». Né fanno maggior conto dell'autorità della chiesa e del sommo pontefice, quando si adoperi di richiamarli a miglior senno, sebbene a parole siano talora ben larghi in proteste di soggezione, finché cioè sperano di coprirsi con queste, guadagnando credito e protezioni. Ora tale sprezzo chiude quasi la via ad ogni fondata speranza di resipiscenza degli erranti; mentre essi negano obbedienza a colui al quale «la divina Provvidenza, come a signore e padre della chiesa tutta pellegrinante in terra ..., ha affidato la custodia della vita e della fede cristiana e il governo della sua chiesa; e perciò ove insorga cosa nella chiesa contro la fede cattolica, a nessun altro va riferita più giustamente perché dall'autorità di lui sia corretta; né ad altri con più sicurezza viene mostrato quello che si risponde contro l'errore, perché dalla prudenza di lui sia esaminato».

Ma Dio volesse che cotesti miseri traviati, i quali hanno spesso in bocca le belle parole di «sincerità», di «coscienza», di «esperienza religiosa», di «fede sentita», «vissuta» e via dicendo, imparassero da Anselmo e ne intendessero le sante dottrine, ne imitassero i gloriosi esempi: soprattutto bene si scolpissero nell'animo questo suo detto: «Prima è da mondare il cuore con la fede, e prima da illuminare gli occhi mediante l'osservanza dei precetti del Signore..., e prima con l'umile obbedienza alle testitnonianze di Dio, dobbiamo farci piccoli per imparare la sapienza... E non solamente, tolta la fede e l'obbedienza dei Comandamenti di Dio, la mente è impedita di salire a intendere verità più alte, ma ancora alle volte l'intelligenza data viene sottratta e la fede stessa sovvertita, se si trascura la buona coscienza».

Che se gli erranti continueranno ostinati a spargere cause di dissensi e di errori, a disperdere il patrimonio della dottrina sacra della chiesa, a impugnarne la disciplina, a schernirne le venerande consuetudini, «il voler distruggere le quali è una specie di eresia», secondo il detto di Anselmo, e abbatterne dalle fondamenta la stessa divina costituzione tanto più strettamente dobbiamo vigilare Noi, venerabili fratelli, e allontanare dal Nostro gregge e dalla parte più tenera di esso in particolare, che è la gioventù, una peste così esiziale. Questa grazia imploriamo da Dio con preghiere incessanti, interponendo il validissimo patrocinio dell'augusta Madre di Dio e anche l'intercessione dei beati cittadini della chiesa trionfante, di s. Anselmo in particolare, fulgido luminare di cristiana sapienza, custode incorrotto e forte vindice di tutti i sacri diritti della chiesa. Al quale Ci piace rivolgere qui al termine le parole che a lui vivente scriveva il Nostro santo predecessore Gregorio VII: «poiché l'olezzo delle tue opere è giunto fino a Noi, ne rendiamo degne grazie a Dio, e ti abbracciamo di cuore nell'amore di Cristo, credendo per certo che dagli esempi tuoi la chiesa di Dio è avvantaggiata in meglio e per le preghiere tue e dei simili a te potrà anche essere liberata dai pericoli che la sovrastano, soccorrendoci la misericordia di Cristo. Quindi preghiamo la tua fraternità di innalzare suppliche a Dio assiduamente, affinché sottragga la sua chiesa e Noi, che sebbene indegni la governiamo, dalle istanti oppressioni degli eretici, e questi riconduca, abbandonato l'errore, alla via della verità».

Da tanta protezione sostenuti, e fiduciosi della vostra corrispondenza, a voi tutti, venerabili fratelli, al clero e al popolo a ciascuno di voi affidato, auspice della grazia celeste e testimone della Nostra speciale benevolenza, impartiamo con ogni affetto nel Signore l'apostolica benedizione.

Roma, presso S. Pietro, nella festa di sant'Anselmo, 21 aprile 1909, nell'anno sesto del Nostro pontificato.

PIUS PP. X

ultimo aggiornamento: 10.08.2007

 
 
 
 
 
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