(1903)
Programma del Pontificato di Pio X.
Nel rivolgerCi la prima volta a voi dalla Cattedra del Supremo Apostolato,
alla quale, per inscrutabile disposizione di Dio, fummo elevati, non fa d'uopo
che ricordiamo con quali lacrime e calde istanze Ci adoperammo di allontanar
da Noi questo formidabile peso del Pontificato. Benché affatto disuguali di
merito, pur Ci sembra di far Nostre con verità le parole di Sant'Anselmo[1] con cui si lamentava, quando contro voglia e riluttante
fu costretto a ricevere l'onore dell'episcopato. Imperciocché a mostrar di quale
animo e con quale volontà Ci siamo sottoposti al gravissimo incarico di pascere
il gregge di Cristo, possiamo bene arrecare quelle stesse prove di dolore ch'egli
per sé invocava. «Sono testimoni
-così egli scriveva - le mie lacrime
e le mie voci e i ruggiti provenienti dall'ambascia del mio cuore, quali mai
non rammento essere da me usciti, per verun dolore, prima di quel giorno in
cui parve di cadermi sopra quella grave sventura dell'arcivescovado di Canterbury.
Né ci poterono ignorare coloro che, in quel giorno, fissarono lo sguardo nel
mio volto... Io, più somigliante pel colore ad un morto che ad un vivente, ero
pallido per lo stupore e per l'affanno. E all'elezione di me fatta, o meglio
alla fattami violenza, finora, parlando con severità, ho riluttato quanto ho
potuto. Ma già, voglia o no, sono costretto di confessare che i giudizi di Dio
resistono ogni dì più ai miei sforzi, talché non vedo di poter scampare. Per
lo che, vinto dalla violenza non tanto degli uomini, quanto di Dio contro la
quale non v'ha accortezza, capisco non rimanermi altro partito, che, dopo aver
pregato quanto ho potuto ed essermi adoperato affinché questo calice, ove fosse
possibile, passasse da me senza che lo bevessi, posponendo il mio sentimento
e la mia volontà, mi rimetta interamente al consiglio ed alla volontà di Dio
».
Né per verità a questa Nostra riluttanza mancavano ragioni in gran numero e
di sommo peso. Imperciocché, oltre allo stimarCi del tutto indegni dell'onore
del Pontificato per la Nostra pochezza; chi non sarebbe stato commosso nel vedersi
designato a succedere a Colui, che avendo, pressoché per ventisei anni, retta
la Chiesa con somma sapienza, di tanta sublimità di mente, di tanto lustro di
ogni virtù si mostrò adorno, da trarre in ammirazione di sé pur gli avversari
e lasciar memoria di se stesso in imprese preclarissime? - Per tacere poi di
ogni altro motivo, Ci atterrivano, sopra ogni altra cosa, le funestissime condizioni,
in che ora versa l'umano consorzio. Giacché chi non iscorge che la società umana,
più che nelle passate età, trovasi ora in preda ad un malessere gravissimo e
profondo, che, crescendo ogni dì più e corrodendola insino all'intimo, la trae
alla rovina? Voi comprendete, o Venerabili Fratelli, quale sia questo morbo:
l'apostasia di Dio, di cui invero è più congiunto collo sfacelo, stante la parola
del profeta: «Ecco che coloro i quali da te si dilungano, periranno
»
(Psal. LXXII, 26). Vedevamo pertanto che, in forza del Pontifical
Ministero che Ci si voleva affidato, era per Noi doveroso accorrere a rimedio
di tanto male, stimando come vòlto a Noi quel comando divino: «Io ti ho oggi
costituito sulle genti e sui regni affinché svella e distrugga, ed edifichi
e pianti
» (Ier. I, 10). Ma, consapevoli della Nostra fiacchezza,
rifuggivamo spaventati da un còmpito quanto urgente altrettanto difficilissimo.
Pure, poiché al voler divino piacque di sollevar la Nostra bassezza a tanta
sublimità di potere, pigliamo coraggio in Colui che Ci conforta; e ponendoCi
all'opera, appoggiati nella virtù di Dio, proclamiamo di non avere, nel Supremo
Pontificato, altro programma, se non questo appunto di «ristorare ogni cosa
in Cristo
» (Eph. I, 10) cotalché sia «tutto e in tutti
Cristo
» (Coloss. III, 11).
Non mancheranno di sicuro coloro i quali, misurando alla stregua umana le
cose divine, cercheranno di scrutare quali siano le secrete mire del Nostro
animo, torcendole a scopo terreno ed a studi di parte. A recidere ogni vana
lusinga, diciamo a costoro che Noi altro non vogliamo essere, né col divino
aiuto altro saremo dinanzi alla società umana, se non il Ministro di Dio, della
cui autorità siamo depositarî;. Gli interessi di Dio saranno gli stessi Nostri;
pei quali siamo risoluti di tutte spendere le Nostre forze e la vita stessa.
Per lo che, se alcuno da Noi richiede una parola d'ordine, che sia espressione
della Nostra volontà, questa sempre daremo e non altra: «Restaurare ogni
cosa in Cristo
».
Nella quale magnifica impresa C'infonde somma alacrità, o Venerabili Fratelli, la certezza che vi avremo tutti cooperatori generosi.
Del che se dubitassimo, dovremmo, ingiustamente, ritenervi o inconsci o noncuranti
di quella guerra sacrilega che ora, può darsi in ogni luogo, si muove e si mantiene
contro Dio. Giacché veramente contro il proprio Creatore «fremettero le genti
e i popoli meditarono cose vane
» (Psal. II, 1), talché è comune
il grido dei nemici di Dio: «Allontanati da noi
» (Iob. XXI, 14).
E conforme a ciò, vediamo nei più degli uomini estinto ogni rispetto verso
Iddio Eterno, senza più riguardo al suo supremo volere nelle manifestazioni
della vita privata e pubblica; che anzi, con ogni sforzo, con ogni artifizio
si cerca che fin la memoria di Dio e la Sua conoscenza sia del tutto distrutta.
Chi tutto questo considera, bene ha ragione di temere che siffatta perversità
di menti sia quasi un saggio e forse il cominciamento dei mali, che agli estremi
tempi son riservati; che già sia nel mondo il figlio di perdizione, di cui parla
l'Apostolo (II Thess. II, 5). Tanta infatti è l'audacia e l'ira con cui
si perseguita dappertutto la religione, si combattono i dogmi della fede e si
adopera sfrontatamente a sterpare, ad annientare ogni rapporto dell'uomo colla
Divinità! In quella vece, ciò che appunto, secondo il dire del medesimo Apostolo
(Sap. XI, 24), è il carattere proprio dell'anticristo, l'uomo
stesso, con infinita temerità si e posto in luogo di Dio, sollevandosi soprattutto
contro ciò che chiamasi Iddio; per modo che, quantunque non possa spegnere interamente
in se stesso ogni notizia di Dio, pure, manomessa la maestà di Lui, ha fatto
dell'universo quasi un tempio a sé medesimo per esservi adorato: «Si asside
nel tempio di Dio mostrandosi quasi fosse Dio
» (II Thess. II, 2).
Per verità nessuno di sana mente può dubitare con qual sorte si combatta questa
lotta degli uomini contro l'Altissimo. Può l'uomo, abusando della sua libertà,
violare il diritto e la maestà del Creatore dell'universo; ma la vittoria sarà
sempre di Dio; ché, anzi, allora è più prossima la disfatta, quando l'uomo,
nella lusinga del trionfo, si solleva più audace: Dio stesso di tanto ci assicura
nei santi libri: «Quasi dimentico della sua forza e della sua grandezza,
dissimula i peccati degli uomini
(Sap. XI, 24); ma ben tosto,
dopo queste apparenti ritirate, scosso quasi fosse risorto dall'ebbrezza
(Psal.
LXXVII, 65), stritolerà il capo dei suoi nemici
(Ib. LXVII,
22); affinché tutti conoscano che Dio è il Re di tutta la terra
(Ib.
XLVI, 7), e sappiano le genti che son uomini
» (Ib. IX, 20).
Tutto questo, Venerabili Fratelli, Noi crediamo ed aspettiamo con fede incrollabile.
Ma ciò non toglie che ancor Noi, per quanto a ciascuno è dato, Ci adoperiamo
ad affrettare l'opera di Dio non gia solo pregando assiduamente: «Levati,
o Signore, non prenda ardire l'uomo
» (Ib. IX, 19); ma, ciò
che più monta, affermando «con fatti e parole, a luce di sole, il supremo
dominio di Dio sugli uomini e sulle cose tutte, di guisa che il diritto ch'Egli
ha di comandare e la Sua autorità siano pienamente apprezzati e rispettati
».
Il che, non solo ci vien richiesto dal dovere che natura ci impone, ma altresì
dal comune nostro vantaggio. Chi è infatti, Venerabili Fratelli, che
non abbia l'animo costernato ed afflitto nel vedere la maggior parte dell'umanità,
mentre i progressi della civiltà meritamente si esaltano, combattersi a vicenda
cosi atrocemente da sembrar quasi una lotta di tutti contro tutti? Il desiderio
della pace si cela certamente in petto ad ognuno e niuno è che non l'invochi
con ardore. Ma voler pace, senza Dio, è assurdo; stanteché donde è lontano
Iddio, esula pur la giustizia; e tolta di mezzo la giustizia, indarno si nutre
speranza di pace. «La pace è opera della giustizia
» (Is. XXXII, 17).
Non pochi sono, lo sappiamo bene, che, spinti da questa brama di pace, cioè
dalla tranquillità dell'ordine, si raggruppano in società e partiti, che chiamano
appunto partiti d'ordine. Speranza e fatiche perdute! Il partito dell'ordine,
che possa di fatti ricondurre la pace nella turbazione delle cose non è che
un solo: il partito di Dio. Questo partito dunque dobbiamo promuovere, a questo
attirare quanti più possiamo, se veramente ci spinge amore di pace.
Se non che, Venerabili Fratelli, questo richiamo degli uomini alla maestà ed
all'impero di Dio, per quanto ci adoperiamo, mai non si otterrà se non per mezzo
di Gesù Cristo. «Niuno, così ce ne avverte l'Apostolo, può porre altro
fondamento all'infuori di quello che è stato posto, che è Gesù Cristo
» (I
Cor. III, 11). È Cristo il solo, «che il Padre santificò e
spedì in questo mondo
(Ioan. X, 36), splendore del Padre ed immagine
della sua sostanza
(Hebr. I, 3), Dio vero e vero Uomo; senza del
quale veruno può conoscere Iddio, come si conviene a salute
», imperciocché
«né il Padre conobbe alcuno se non il Figlio e quegli cui volle il Figlio
rivelarlo
(Matth. XI, 27). Dal che consegue, che instaurare
le cose tutte in Cristo e ricondurre gli uomini alla soggezione a Dio è uno
stesso ed identico scopo. Qua pertanto fa mestieri volgere le nostre cure a
ricondurre l'uman genere sotto l'impero di Cristo; con ciò solo, lo avremo ricondotto
anche a Dio. A Dio intendiamo, non già a quello inerte e noncurante delle cose
umane che immaginarono i sogni dei materialisti; ma Dio vivo e vero, Uno nella
natura, Trino nelle persone, Creatore del mondo, sapientissimo ordinatore di
ogni cosa, legislatore giustissimo, che punisce i malvagi e ha pronto il premio
per la virtù.
Ora quale sia il cammino per giungere a Cristo, non è d'uopo di ricercarlo:
è la Chiesa. Per lo che giustamente il Grisostomo inculcò: «La tua
speranza è la Chiesa, la tua salute è la Chiesa, il tuo rifugio è la Chiesa
».
E per ciò infatti Cristo la fondò, guadagnandola a prezzo del sangue Suo; e
la fece depositaria della Sua dottrina e delle Sue leggi, dandole insieme una
ricchezza smisurata di grazie per santificazione e salute degli uomini.
Scorgete adunque, o Venerabili Fratelli, quale sia in fine il dovere che a
Noi parimenti ed a voi venne imposto: richiamare alla disciplina della Chiesa
il consorzio umano allontanatosi dalla sapienza di Cristo; la Chiesa, a sua
volta, lo sottometterà a Cristo e Cristo a Dio. Il che se, per benignità di
Dio medesimo, Noi meneremo a buon termine, saremo lieti di vedere il male dar
luogo al bene; e udremo, per nostra felicità, una gran voce dal cielo che dirà:
«Ora si è fatta la salute e la virtù e il regno del nostro Dio e la
potestà del suo Cristo
» (Apoc. XII, 10). Perché però tutto
questo si ottenga conforme al desiderio, fa d'uopo che con ogni mezzo e fatica
Noi facciamo sparir radicalmente l'enorme e detestabile scelleratezza, tutta
proprietà del nostro tempo, la sostituzione cioè dell'uomo a Dio; dopo ciò,
sono da rimettere nell'antico onore le leggi santissime ed i consigli del Vangelo:
affermare altamente le verità insegnate dalla Chiesa e la dottrina della stessa
circa la santità del matrimonio, l'educazione e l'ammaestramento della gioventù,
il possesso e l'uso dei beni, i doveri verso coloro che reggono le cose pubbliche;
per ultimo, restituire l'equilibrio fra le diverse classi della Società a norma
delle prescrizioni e costumanze cristiane. Noi per fermo, nel sottometterCi
ai divin voleri, tanto Ci proponiamo di cercare nel Nostro Pontificato, e con
ogni industria lo cercheremo. A voi, o Venerabili Fratelli, si spetta di assecondare
le Nostre industrie colla santità, colla scienza, coll'esperienza vostra, e
soprattutto collo zelo della divina gloria; null'altro avendo di mira se non
che si formi Cristo in ognuno.
Quali mezzi poi sia mestieri di adoperare per conseguire si grande scopo, sembra
superfluo indicano; giacché son ovvî di per se stessi. Le prime vostre premure
siano di formar Cristo in coloro i quali, per dovere di vocazione, son destinati
a formarlo negli altri. Intendiamo parlare dei sacerdoti, o Venerabili Fratelli.
Imperocché quanti sono insigniti del sacerdozio debbono conoscere che, in mezzo
ai popoli coi quali vivono, essi hanno quella missione medesima, che Paolo attestava
di aver ricevuto con quelle tenere parole: «Figlioletti miei, che io genero
di nuovo finché si formi Cristo in voi
» (Gal. IV, 19). Or
come potranno eglino adempiere un tal dovere, se prima essi medesimi non si
siano rivestiti di Cristo? E rivestiti in guisa, da poter dire coll'Apostolo:
«Vivo io, non più io, ma vive in me Cristo
(Ib. II, 20). Per
me il vivere è Cristo
» (Phil. I, 21). Per la qual cosa, benché
a tutti sia rivolta l'esortazione di inoltrarsi verso l'uomo perfetto, nella
misura dell'età della pienezza di Cristo (Eph. IV, 13); nondimeno
è diretta pria d'ogni altro a coloro che esercitano il ministero sacerdotale;
i quali perciò son chiamati un altro Cristo, non già solo per la comunicazione
della potestà, ma eziandio per la imitazione delle opere, per cui debbono portare
espressa in se medesimi l'immagine di Cristo.
Le quali cose essendo cosi, quale, o Venerabili Fratelli, e quanto grande sollecitudine
deve porsi da voi nel formare il clero a santità! Qualsivoglia altro impegno
uopo è che ceda a questo. Ond'è che la parte precipua delle vostre diligenze
deve essere rivolta ad ordinare e governare come conviensi i vostri seminari,
per modo che fioriscano del pari per l'integrità dell'insegnamento e per l'intemeratezza
dei costumi. Riguardate il seminario come la delizia del vostro cuore; ed a
vantaggio di esso nulla omettete di quanto il Concilio Tridentino determinò
con somma provvidenza. Venuto poi il tempo in che i giovani candidati debbono
promuoversi ai sacri Ordini, deh! non si dimentichi ciò che San Paolo scrive
a Timoteo: «Non imporre con precipitazione le mani a veruno
(I Tim. V,
22), riflettendo con somma attenzione che tali di via ordinaria saranno
i fedeli, quali saranno quei che chiamerete al sacerdozio
». Non vogliate
adunque aver riguardo a interesse particolare di sorta; ma mirate unicamente
Dio e la Chiesa e l'eterno bene delle anime, affinché, come l'Apostolo avverte,
«non comunichiate nei peccati altrui
». Inoltre non vengan meno le vostre
industrie riguardo ai sacerdoti novelli e già usciti di seminario. Ve lo raccomandiamo
dall'intimo dell'animo, accostateli sovente al vostro petto, che deve ardere
di fuoco Celeste, accendeteli, infiammateli, perché ad altro non anelino che
solamente a Dio ed a lucrare le anime. Noi, sì, Venerabili Fratelli, vigileremo
con diligenza somma acciocché i membri del clero non siano tratti alle insidie
di una certa nuova scienza e fallace, che in Cristo non s'insapora, e che con
larvati e subdoli argomenti si studia di dar passo agli errori del razionalismo
e semi-razionalismo; contro i quali l'Apostolo già avvertiva il suo Timoteo
di premunirsi scrivendogli: «Custodisci il deposito, evitando le profane
novità di parole e le opposizioni di una scienza di falso nome, che taluni promettendo
vennero meno della fede
» (I Tim. VI, 20).
Ciò però non toglie che riputiamo degni di encomio quei giovani sacerdoti che
si dànno allo studio di utili dottrine, in ogni genere di scienze, per poter
quindi esser meglio apparecchiati a difendere la verità e a ribattere le calunnie
dei nemici della fede. Pur nondimeno non possiamo nascondere, ma dichiariamo
anzi apertissimamente, che le preferenze Nostre sono e saranno sempre per quelli,
i quali, pur coltivando l'ecclesiastica e letteraria erudizione, si dedicano
più da vicino al bene delle anime coll'esercizio di quei ministeri, che son
propri d'un sacerdote zelante dell'onore divino. È grande tristezza ed un continuo
dolore per il Nostro cuore (Rom. IX, 2) il ravvisare adattarsi
pure ai nostri giorni il pianto di Geremia: «I pargoli domandarono pane,
e non era chi loro lo spezzasse
(Ier. IV, 4). Imperocché non mancano
nel clero quei che, a seconda del proprio genio, si consacrano ad opere più
apparenti che di solida utilità: ma forse non altrettanto numerosi sono coloro
che, ad esempio di Cristo, prendono per sé le parole del Profeta: «Lo Spirito
del Signore mi ha unto, mi ha mandato ad evangelizzare i poveri, a sanare i
contriti di cuore, ad annunziare ai prigionieri la remissione e la vista ai
ciechi
» (Luc. IV, 18-19).
Pur chi non vede, o Venerabili Fratelli, che, conducendosi gli uomini colla
ragione e colla libertà, la via principalissima a restituire l'impero di Dio
nelle anime è l'insegnamento religioso? Quanti sono mai, che nimicano Cristo
ed aborrono la Chiesa ed il Vangelo più per ignoranza che per malvagità di animo!
Dei quali giustamente può dirsi: «Bestemmiano tutto quello che ignorano
»
(Iud. 10). Né ciò s'incontra solo nel popolo e nella plebe
più abbietta, che perciò è tratta agevolmente in inganno; ma altresì nelle classi
civili e perfino in quei che peraltro sono forniti di non mediocre istruzione.
Di qui in moltissimi la perdita della fede. Giacché non è vero che i progressi
della scienza estinguano la fede, ma piuttosto l'ignoranza; onde avviene che
dove più domina l'ignoranza ivi fa più larga strage l'incredulità. E questa
è la ragione per cui Cristo ordinò agli Apostoli: «Andando, ammaestrate tutte
le genti
» (Matth. XXVIII, 19).
Perché, però, da questo apostolato e zelo d'insegnamento si raccolga il frutto
sperato ed in tutti si formi Cristo, si rammenti bene ognuno, o Venerabili Fratelli,
che nulla è più efficace della carità. Imperocché il Signore trovasi nella commozione
(III Reg. XIX, 11). Indarno si spera di attirare le anime a Dio
con uno zelo amaro: che anzi il rinfacciare duramente gli errori, il riprendere
con asprezza i vizi, torna sovente più a danno che ad utilità. Esortava, è vero,
l'Apostolo a Timoteo: «Accusa, prega, riprendi
»; ma soggiungeva
pure: «con ogni pazienza» (II Tim. IV, 2). Certo
Gesù cotali esempi ci ha lasciato. «Venite
- così troviamo aver Egli
detto - venite a me tutti voi che siete infermi ed oppressi, ed io vi consolerò
»
(Matth. XI, 28). Né altri intendeva per quegli infermi ed oppressi,
se non coloro che sono schiavi del peccato e dell'errore. Quanta invero fu la
mansuetudine di quel Maestro divino! Quale tenerezza, qual compassione verso
ogni fatta di miseri! Ne dipinse stupendamente il cuore Isaia con quelle sue
parole: «Porrò sopra di lui il mio spirito; non contenderà né leverà la voce;
non ispessirà la canna già scossa né estinguerà il lino che fumiga
»
(Is. XLII, 1). La quale carità, paziente e benigna (I Cor.
XIII, 4), dovrà protendersi a quelli eziandio che ci sono avversi e ci
perseguitano. «Siamo maledetti
- così San Paolo di sé protestava - e
benediciamo, siamo perseguitati e tolleriamo, siamo bestemmiati e preghiamo
»
(Ibid. IV, 12). Essi forse appaiono peggiori di quel che
veramente sono.
La convivenza con gli altri, i pregiudizi, gli altrui consigli ed esempi e finalmente una vergogna mal consigliata li hanno trascinati nel partito degli empi: ma la loro volontà non è poi si depravata, come essi stessi cercano di far credere. Chi ci toglierà di sperare che la fiamma della carità cristiana non abbia a dissipar le tenebre dai loro animi e ad apportarvi il lume e la pace di Dio? Tarderà forse talora il frutto delle nostre fatiche; ma la carità non si stanca mai nell'attendere, memore che Dio prepara i suoi premi non già all'esito delle fatiche ma alla buona volontà.
Vero è, o Venerabili Fratelli, che in questa opera così ardua di restaurazione
dell'uman genere in Cristo non è Nostra intenzione che né voi né il vostro clero
non ammettiate aiuto di sorta. Sappiamo che Dio raccomandò a ciascuno la cura
de' suoi prossimi (Eccl. XVII, 12). Non sono pertanto i sacerdoti
solamente, ma i fedeli tutti senza eccezione, che debbono darsi pensiero degli
interessi di Dio e delle anime: bene inteso, non già di proprio arbitrio e colle
proprie viste, ma sempre sotto la direzione ed il comando dei Vescovi; giacché
il presiedere, l'insegnare, il governare a niuno è concesso nella Chiesa fuorché
a voi, che lo Spirito Santo pose a reggere la Chiesa di Dio (Act. XX, 28).
I Nostri Predecessori, già da gran tempo, approvarono e benedissero i cattolici
che, con vario scopo ma sempre con religiosi intendimenti, si legano fra sé
in società. Noi pure non dubitiamo di tributare la nostra lode a tali egregie
istituzioni, e molto desideriamo che si propaghino e fioriscano nelle città
e nelle campagne. Se non che vogliamo che siffatte associazioni tendano innanzi
tutto e principalmente a far sì che il vivere cristiano si mantenga costantemente
in coloro che vi si ascrivono. Poco monta in verità che si discutano sottilmente
assai questioni, che si discorra con facondia di diritti e di doveri, se tutto
ciò sia disgiunto dalla pratica. I tempi che corrono richiedono azione; ma un'azione
che tutta consista nell'osservare con fedeltà ed interezza le leggi divine e
le prescrizioni della Chiesa, nella professione franca ed aperta della religione,
nell'esercizio d'ogni opera di carità, senza verun riguardo a se stessi ed a
vantaggi terreni. Tali luminosi esempi di tanti soldati di Cristo varranno assai
meglio a scuotere gli animi e a trascinarli, che non le parole e le sublimi
dissertazioni; e facilmente avverrà che, scosso l'umano rispetto, deposte le
prevenzioni e le titubanze, moltissimi saranno tratti a Cristo facendosi a loro
volta promotori della conoscenza e dell'amore di Lui che sono la strada per
la vera e la sola felicità. Oh! senza dubbio, se in ogni città, se in ogni villaggio
si adempierà fedelmente la legge del Signore, se si avrà rispetto alle cose
sacre, se si frequenteranno i Sacramenti, se si osserverà quanto altro appartiene
al vivere cristiano; non sarà per Noi mestieri, o Venerabili Fratelli, che più
oltre Ci affatichiamo per vedere ogni cosa ristaurata in Cristo. Né da ciò si
aspetti solo giovamento per l'acquisto dei beni terreni; se ne otterrà altresì
aiuto grandissimo pei vantaggi del tempo e della umana convivenza. Poste infatti
in sicuro le cose anzidette, i nobili e i ricchi sapranno essere giusti e caritatevoli
a riguardo degli umili, e questi porteranno con tranquillità e pazienza le strettezze
di uno stato più angustioso; obbediranno i cittadini non già al libito ma alle
leggi; si guarderà qual dovere la riverenza e l'amore verso dei governanti,
«la cui potestà non viene se non da Dio»
(Rom. XIII, 1). Che
più? Allora finalmente sarà chiaro ad ognuno che la Chiesa, quale da Cristo
fu istituita, deve godere piena ed intera libertà ed indipendenza da ogni estraneo
dominio e che noi, nel rivendicare questa libertà, non solo tuteliamo i diritti
sacrosanti della religione, ma provvediamo eziandio al comun bene ed alla sicurezza
dei popoli. Sta di fatto che «la pietà è utile ad ogni cosa
» (I
Tim. IV, 8) e ad essa incolume e fiorente «riderà
»,
davvero, «il popolo nella pienezza della pace
» (Is. XXXII,
18).
Dio, che è ricco in misericordia (Eph. II, 4), acceleri benigno questa
restaurazione dell'uman genere in Gesù Cristo; giacché «non è opera di chi
vuole né di chi corre, ma di Dio misericordioso
» (Rom. IX, 16).
E noi, Venerabili Fratelli, «nello spirito di umiltà
» (Dan.
III, 39), con preghiera continua ed insistente chiediamolo per
i meriti di Gesù Cristo. Volgiamoci altresì alla intercessione potentissima
della Madre divina per ottener la quale, giacché vi dirigiamo questa Nostra
Lettera nel giorno appunto destinato a commemorare il Santo Rosario, disponiamo
e confermiamo quanto il Nostro Predecessore ordinò circa il dedicare il presente
mese alla Vergine Augusta, colla pubblica recita, in tutte le Chiese, dello
stesso Rosario; ammonendo inoltre che si adoprino pure ad intercessori presso
Dio lo Sposo purissimo di Maria patrona della Chiesa e i Santi Principi degli
Apostoli Pietro e Paolo.
E perché tutto questo avvenga conforme alle Nostre brame ed ogni cosa a voi succeda prosperosamente, imploriamo larghissimi su di voi i doni delle grazie divine. A testimonianza poi della tenerissima carità, con cui abbracciamo voi e i fedeli tutti, che la Divina Provvidenza Ci volle raccomandati, a voi, Venerabili Fratelli, al clero ed al vostro popolo impartiamo con ogni affetto nel Signore l'Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 4 di ottobre 1903, l'anno I del Nostro Pontificato.
Pio PP. X.
[1] Su Sant'Anselmo d'Aosta, vedi più avanti la nota all'enciclica «Communium rerum» di Pio X (1909).
ultimo aggiornamento: 10.08.2007